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venerdì 23 febbraio 2018

Bambini e Università

Chi mi conosce sa che non mi spiace l'idea dell'estinzione volontaria della specie. Se mi mettete in una stanza con un cagnolino ed un bambino io corro subito dal primo (è successo davvero, per la cronaca, ed era un delizioso cucciolo di beagle). Se mi date un neonato in braccio io sono così:


Foto del post da qui

In un mondo ideale, se domani le parole della Lorenzin facessero centro e il mio orologio biologico prendesse a ticchettare all'impazzata, io potrei decidere di sfornare tonnellate di bambini (e qui già vedo il mio compagno sudare freddo e uscire per comprare il currywurst e non tornare mai più).

Invece, la cosa non può succedere.

E voi direte, perchè? Ho il culo di essere una donna etero cisgender in età giusta con compagno etero cisgender in età giusta, salvo sfighe tutto dovrebbe filare liscio no?

No. Perché di lavoro faccio l'accademica. E, come disse una mia collega azzeccando in pieno, l'accademia è il miglio anticoncezionale di sempre. Altro che pillola, preservativo, o crocks: il modo migliore per non fare figli è stare in università.

Non perché uccida la passione (cioè, in alcuni casi, anche. Provate voi dopo aver letto libri sui Gesuiti in Giappone per sei ore). E' perché non ti da il tempo di farti una famiglia.

Pur ammettendo che una persona non perda neanche un anno di percorso, ci vuole di laurearsi, specialistica, entrare in un programma di dottorato, dai tre ai sette anni per finire il dottorato, poi pubblicare un libro, poi fare un sei sette anni di postdoc in cui viaggiare ed andare a più conferenze possibili, pubblicare un altro libro, e poi finalmente (FORSE) il lavoro fisso. Io conosco persone che hanno aspettato di finire tutto ciò e hanno avuto figli a 45 anni, ma capiamo che tanti vorrebbero spingere il passeggino prima che gli venga l'artrosi. 

E voi direte, e ma quanta fatica, pure mia zia è precaria e lavora molto, ma i figli li ha fatti. E poi gli accademici non ce l'hanno la maternità?

Ni. Perché poniamo che tu abbia effettivamente la fortuna di vivere in un sistema che ti faccia stare a casa in maternità (non gli USA, quindi), questo non impedisce che tu abbia un buco ENORME sul curriculum. Lavorare in università è un mondo orrendo e competitivo, in cui ci sono più persone che posti disponibili. Devi quindi dimostrare di lavorare più degli altri. In particolare, pubblicando. Pubblicando moltissimo. 

Non importa se tu hai avuto cinque figli: se non pubblichi cinque articoli nello stesso tempo in cui il tuo collega single li ha pubblicati, non passerai il concorso. Se non vai a cinque conferenze all'anno come il tuo collega single, non avrai modo di conoscere la gente che ti potrebbe offrire un lavoro. 

Oltretutto, l'accademia è spesso un posto per workaholic. Ultimamente il mio Twitter feed era incendiato da commenti sul fatto che i professori dicono ai dottorandi di lavorare minimo 60 ore a settimana. Ovviamente è una follia e molta gente non lo fa (neanche io, per dire). Ma molta, invece, si'. E mentre cerchi di pubblicare pure la lista della spesa, ti senti sempre in colpa a pensare al collega che ha un materasso gonfiabile per dormire in ufficio e a quella che si è recentemente detta contenta dell'arrivo delle vacanze perché "così mi chiudo in casa da sola e scrivo".

Per dire, io ho fatto morire pure un pino, figurati trovare il tempo di annaffiare un bambino. 

Nel mio percorso universitario ho avuto molte professoresse donne, ma poche avevano figli. Quelle che li avevano erano di solito molto anziane e avevano trovato lavoro quando era meno competitivo. Senza pensarci, ho sempre dato per scontato che fosse una scelta obbligata: se vuoi lavorare in accademia non devi avere una famiglia, e a me è sempre andato bene così. Ma non va bene, è una delle ragioni per cui c'è una disparità tra uomini e donne in molti dipartimenti. Gli uomini continuano perché tanto alla prole ci pensa la moglie, le donne trovano un altro lavoro. 


Poi, però, ho iniziato a conoscere persone che si meritano pacchi Amazon della mia stima e che sono riuscite a fare tutto. Donne che vanno a conferenze incinta di sette mesi e che hanno scritto la tesi di dottorato con neonati di sei mesi a carico. Donne che mettono a letto i figli e si mettono a scrivere. Donne che lavorano a centinaia km di distanza da compagni e figli e passano ore in macchina o sui treni o sugli aerei, e che parte della settimana vivono lontane dalla famiglia. Se contiamo che gli accademici si accoppiano sempre con altri accademici perché sono ugualmente noiosi è più facile incontrarli, sappiamo che quasi nessuna di queste donne ha un marito piazzato e benestante che la aiuti. 

E' giusto tutto ciò? No, non lo è. Non lo è perché malgrado queste persone siano delle Wonderwoman senza tutina ma con innumerevoli titoli di studio, le stesse possibilità dovrebbero essere date a tutti. So di essere molto radicale, ma penso che una persona debba essere in grado di poter avere una famiglia E lavorare quaranta (solo quaranta) ore in università E magari pure dormire otto ore per notte mangiare a intervalli regolari e lavarsi SENZA essere Wonderwoman. 

Da quando sono arrivata in Germania, però, ho visto cose che mi piacciono. Per prima cosa c'è una cosa meravigliosa che andrebbe estesa a tutto il mondo: il congedo paternità. Se sta a casa sei mesi la mamma, sta a casa sei mesi anche il papà. Certo, la natura matrigna ha voluto fossimo noi donne a doverci sorbire smagliature, allattamenti, e tutte le orrende conseguenze di avere un utero: però gli uomini sono comunque in grado di cambiare pannolini o fare bagnetti. Pure quelli che non hanno un dottorato, figuriamoci quelli che ce l'hanno. 

Così ho visto coppie di accademici dividersi i compiti al 50% e ridurre quel rischio classico del professore che fa carriera mentre la moglie di uguale intelligenza sacrifica il posto in università per stare a casa frustratissima a leggere l'Ariosto ai figli, che poi cresceranno e voteranno Salvini. In più questo fa si che entrambi i genitori parlino per il 50% del tempo di cose interessanti e per il 50% di cacca, invece di fare come quelle coppie tristissime in cui l'uomo continua a parlare degli argomenti più svariati e la donna non riesce più a fare nessuna conversazione che vada oltre Peppa Pig perché passa tutte le sue giornate con un duemesenne.

(che oh, ci sono tantissime donne a cui questa divisione dei lavori piace perché amano gli omogeneizzati e odiano gli adulti -come dargli torto, poi -ma sto parlando di gente che è costretta a fare queste scelte)

E nessuno dove lavoro io chiede alle donne nei colloqui se hanno intenzione di avere figli, ma in compenso è successo che qualche uomo chiedesse di iniziare il lavoro qualche mese dopo per il congedo paternità. 

Poi, ho visto gente mettersi sul curriculum un periodo di Elternzeit, ovvero congedo parentale. Il che in pratica potrebbe non cambiare moltissimo -se non hai abbastanza pubblicazioni non avrai un lavoro, e cavoli tuoi - ma mi sembra un primo passo verso l'essere meno bambinofobi in accademia.

E ho anche visto molta gente all'occorrenza portarsi i figli in ufficio, dove c'è tutto l'occorrente per cambiarli e dargli da mangiare e intrattenerli. Portarli in giro alle conferenze.  E qui io ho sentimenti contrastanti: se da una parte avere intorno dei bambini mi rende felice e rilassata come stare nelle sabbie mobili circondata dai piraña, dall'altra mi sembra una cosa bellissima per la gender equality. 

Oltretutto, girare con colleghi figliomuniti è perfetto per il networking: un sacco di professori importanti si fermano a lanciare un sorriso al pupattolo, e tu -zac! -gli piazzi in mano il tuo ultimo articolo per avere un parere. A meno che il professore importante sia una persona insensibile come, per esempio, me. Certo, crescendo questi bambini probabilmente diventeranno dei disadattati come Sheldon Cooper e giocheranno con figurine di Shakespeare invece che i playmobil, ma preoccupiamoci di una cosa alla volta. 


Così, una volta ero ad una conferenza con due colleghi e il loro bambino di sei mesi. Ad un certo punto lei ha preso a lamentarsi
"Ecco, è dovuta venire anche mia madre per tenere il bambino mentre noi presentiamo. E l'università non ha rimborsato nulla. Quando allattavo le pagavano sia il viaggio che l'albergo. Ora che ho smesso di allattare non più, ma è inconcepibile perché non sono cavoli dell'amministrazione se allatto. E mi offrono si dei soldi per pagare una babysitter e lasciare il bambino a casa, ma certo non lo lascio da solo quattro giorni così piccolo"

Mentre tutti i colleghi tedeschi facevano "ja ja" con la testa, io sono rimasta con gli occhi pallati. La collega ha ragione a lamentarsi, però una cosa sola mi è rimasta impressa nella mente:
L'università da qualche forma di supporto per i bambini durante le conferenze?
In molti posti molte volte manco pagano il viaggio al ricercatore che deve presentare, figurati a sua mamma. 

E quindi niente, nella mia mente ho aggiunto un cuoricino vicino alla voce "Germania", che non sarà perfetta, ma qualche passetto inizia a farlo. 

Ciò non toglie che ehi, i bambini sono molto più puzzolenti dei gatti e danno la metà delle soddisfazioni perché non sono pelosi (ciò lo scrivo soprattutto per tranquillizzare il mio compagno che a questo punto del post sarà svenuto)


Per gli amici lettori: non è che le università siano uguali ovunque, io mi baso soprattutto sulla mia esperienza in America e Germania. Se voi siete accedemici e avete otto figli (ma meno di quarantacinque anni, e nessun genitore/fratello/marito/migliore amico che vi mantiene e vi ha regalato un posto di lavoro) vorrei tantissimo sapere come fate.




11 commenti:

  1. Dai Pico, non farmi terrorismo psicologico che, se tutto va bene (ma proprio tanto!), finisco il dottorato a 40 anni 😓 Fortuna che figli non ne voglio...

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    1. Dai coraggio! Non è tutto terribile, per esempio se lavori in università puoi sempre alzarti tardi la mattina...

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  2. Forse dovrei essere indignita, ma in realtà questo post è un sacco simpatico e mi è piaciuto tanto.

    Però odio che chi lavora 60 ore a settimana, immagino senza avere neanche pagato gli straordinari 😅

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    1. Straordinari? Spesso questa gente manco è pagata in generale (o magari è pagata per insegnare, sicuramente non per pubblicare visto che nessuno vede un soldo). Solo che sono proprio le condizioni del lavoro (e quel poco di gloria di vedere il tuo nome su un libro che leggeranno in 5...)

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    2. Io mi sento un po' indignata, a leggere questo posto. Quando ero nei Paesi Bassi in effetti vedevo le dottorande con la panza venire in ospedale. Dove lavoro ora (ma non è ricerca, siamo in un ospedale universitario ma faccio clinica) c'è sempre qualche collega incinta, perché siamo praticamente solo donne quindi va così, di sicuro l'unico maschio ha fatto più passi avanti di noi altre 40 femminucce. E in Italia non c'è neanche di che parlarne. Mi rode, mi rode da morire, questa scelta obbligata: o l'accademia o i figli. Fossi nata maschio, non mi sarebbe mai manco passato per l'anticamera del cervello e non credo che i maschi della mia vita (compagno, fratello, amici vari) capiscano veramente tutto ciò.

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    3. Infatti io spesso con uomini non riesco a far capire il problema, perché per loro ormai la parità di genere è raggiunta... ma che io non possa avere una famiglia se voglio lavorare e viceversa è semplicemente una cosa da medioevo, eppure accade...

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  3. Riconosco molti dei discorsi della mia amica dottorata, che qualche tempo fa ha ceduto al sistema e abbandonato il mondo dell'accademia per "vendersi" all'industria. Una della sue ragioni per farlo è stata appunto la gran fatica a conciliare la vita privata e certe scelte personali: non solo la figlianza, ma anche - come il suo caso - il non aver nessun supporto per stare vicino a dei familiari con problemi di salute.
    Bravi i tedeschi che qualche passo in questo senso lo stanno facendo!

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  4. Secondo me non e' un "vendersi" all'industria -certe persone non hanno voglia di stare in Universita' e se ne vanno. Io pero' non sono tra queste e difficilmente troverei un lavoro adatto alle mie qualifiche (banalmente, tornerei a fare quello che facevo prima del dottorato, "buttando" sei anni), quindi niente, un po' mi rode. Come immagino potrebbe rodere alla tua amica dottorata

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  5. L'ho definito vendersi perché è la parola che ha usato lei quando ha fatto il passo. La fatica accademica poi è stata sostituita dalle dinamiche di impresa, ora lavora in una multinazionale farmaceutica...e che te lo dico a fare, nei fatti è "tornata indietro", nel senso che quello che poteva fare in laboratorio durante il post doc non è minimamente vicino a quello che deve fare ora durante l'orario di ufficio. Ma sono scelte, e ognuno di noi ha poi le proprie ragioni personali per scegliere una o l'altra strada.

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  6. Hai ragione, non e' proprio giusto. E' una scelta, orrenda e non dovrebbe proprio essere cosi', e' una schifezza.

    Il 50/50 e' l'unica soluzione ma pure il semplice buonsenso, a casa mia ora funziona cosi' ma se mi guardo in giro non siamo in tanti e temo che con l'arrivo dei figli le cose cambino in peggio per molte donne, specie in caso di divorzio, specie se lui pensa di esser nato lord del 1800, specie se lei non riesce a demandare sulla, che ne so, pulizia di casa o sul portare in giro il bambino. Non e' il caso mio personale ma la questione continua a non convincere, poi chiaro, forse con un bambino in braccio le cose cambiano nella testa.
    Forse no, pero'.

    Ma tanto qua l'unico scampanellio che sento e' quello di Babbo Natale alla vigilia!

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    1. Perfettamente d'accordo. Questo fumetto secondo me spiega bene molti problemi a proposito della parita' nella coppia https://english.emmaclit.com/2017/05/20/you-shouldve-asked/

      Amo l'espressione di Babbo Natale alla vigilia XD

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